Ordinanze antidegrado
Urca urca tiruleru, oggi splende il sol!
Stasera ho proprio voglia di uscire, ho proprio voglia di stare in giro, di conoscere gente, di parlare con le persone… usciamo!
Faccio una chiamata.
“No, guarda, non ho voglia. Penso che starò a casa a vedere un film. Non c’è niente da fare in giro: solito bar, solito alcool, solita gente. Ci sarebbe quella serata, in quel posto là… ma è troppo lontano, poi non ci sono gli autobus per tornare. Quindi non mi muovo.”
Allora uscirò senza nessuno.
Salgo sul bus. Un po’ di gente c’è, almeno qua. Ognuno preso dai suoi pensieri. Chi, appena uscito da lavoro, pensa già alla sveglia di domattina; chi, con una misera busta del LIDL in mano, si chiede se la cena basterà per la famiglia; chi, dopo tante ore di stress dietro a una scrivania, ha fretta di tornare a casa per sedersi sulla sua poltrona e accendere la tv finchè il sonno non sopraggiunge.
Azzardo mezzo sorriso alla vecchietta seduta di fianco a me, mi guarda storto. Troppi telegiornali, mi avrà scambiato per un borseggiatore o un tossico, d’altronde ormai bastano i miei jeans larghi e i capelli lunghi per catalogarmi.
Scendo in centro, mi accendo una sigaretta e mi dirigo lentamente verso la piazza, guardandomi intorno: i muri sono bianchi e asettici, le poche persone che incontro vanno di fretta, guardandosi i piedi. Dove sono finiti i graffiti? I manifesti colorati? I brandelli di sogni attacchinati sulle colonne? La gente non vive più i luoghi in cui abita.
Eccomi in piazza, sicuramente troverò qualcuno con cui scambiare due parole e farmi quattro risate, ma non c’è nessuno, solo un piccolo gruppo di ragazzi seduti su un gradino che bevono una birra. Mi avvicino, gli chiedo se posso sedermi con loro, unici esseri umani in quella che sembra una città fantasma.
“Certo, siediti pure!”
Neanche il tempo di fare le presentazioni, mi sento toccare la spalla. Sono due uomini in divisa blu.
“Voi non potete stare qua”
“Perché?”
“Seduti per terra degradate la piazza. In piedi, e seguiteci.”
Ci alziamo di mala voglia. Del resto, cosa possiamo fare in così pochi? Ci portano davanti alla camionetta.
“Documenti.”
Fuori i portafogli e consegna delle carte d’identità (che poi la carta è solo carta, la carta brucerà). Uno degli uomini le prende ed entra nella camionetta per l’identificazione, l’altro resta con noi.
“Posso sedermi? Sono stanca!”
“E va bene siediti.”
Anche io avverto una certa stanchezza, pensandoci. Quasi quasi mi siedo anche io…
“No! Cosa stai facendo? Non vi potete sedere tutti insieme! Datevi il cambio!”
Non sappiamo se ridere o se piangere. Scoppiamo in una fragorosa risata e ci andiamo a sedere nella panchina pochi metri più in là. Lo sbirro si allontana, senza però perderci d’occhio. Sigaretta.
“Ehi voi! Documenti!”
Ci giriamo: altri due uomini in divisa, diversa da quella dei primi due.
“Non abbiamo documenti.”
“Cosa? Ma girate senza documenti? Svuotate le tasche!”
Ancora prima di riuscire a spiegare mi trovo la mano del poliziotto in tasca.
“Guarda che i nostri documenti ce li hanno loro.”
Indichiamo gli uomini vicino alla camionetta. Giusto perché siamo soggetti socialmente pericolosi, decidono di aspettare la fine del controllo dei colleghi: due paia d’occhi in più non fanno mai male, avendo a che fare con persone come noi…
“Tutto ok, potete andare” dicono i primi a noi.
“Buona serata colleghi” dicono i secondi ai primi.
Poi vanno via tutti. E’ tornata la desolazione, però almeno non siamo controllati. Decidiamo di cercare un posto più tranquillo, andiamo al parco. Prato verde, panchine, giochi per bambini, aiuole, fiori, alberi, rami… e telecamere! L’occhio della legge è sempre vigile. Decidiamo di spostarci di nuovo, ma dovunque andiamo siamo osservati da occhi meccanici a circuito chiuso.
Ci sono posti dove Dio non riesce a vedere, ma le forze dell’ordine costituito non hanno certi limiti.
Alla fine mi ritrovo nello stesso bar di tutte le sere, spintonato da bodyguard africani… loro svolgono un lavoro utile alla società, quindi non li rinchiudono nei c.i.e. come chi cerca di tirare a campare vendendo fazzoletti e accendini per strada, o pulendo i vetri delle macchine; e senza dubbio coi loro giubottini marchiati col nome del bar sono più belli a vedersi, almeno per qualcuno.
Quattro euro e cinquanta per una birra, mi viene in mente che è la fine del mese, e a breve dovrò sborsare l’esorbitante affitto (in nero) per il bilocale condiviso con altre due persone, nonché la terza retta di quell’università che hanno il coraggio di definire pubblica. Prendo la birra e mi siedo al tavolo. Sono tutti seduti al tavolo. Tutti in cerchio, guardando negli occhi gli amici, ed escludendo qualsiasi cosa all’infuori del loro tavolo.
Che fare?
Ma certo! C’è il centro sociale! Come ho fatto a non pensarci prima? Dove posso trovare qualcuno con cui parlare, dove passare un po’ di tempo in compagnia se non al centro sociale? Peccato non ricordi come ci si arriva. Chiedo in giro.
“L’hanno buttato giù.”
Come l’hanno buttato giù?
“Dovevano costruire il parcheggio di un centro commerciale, gli serviva quello spazio.”
Con un meraviglioso stato d’animo dopo questa serata costruttiva e piena di socialità, decido di abbandonare il mio progetto iniziale e rinchiudermi anch’io in casa, in solitudine, magari sostituendo la desolazione degli show in tv con qualche bel film, giusto per mantenere una certa coerenza con la mia persona. Arrivo a casa, metto il pigiama e guardo lo schermo nero della televisione. No, non mi va di guardare un film, stasera leggo un libro. Mi infilo sotto le coperte, faccio attenzione a posizione la luce in modo che non disturbi troppo chi dorme nel letto accanto e mi teletrasporto nel 1984.
Ho un quaderno in mano, sono nella mia stanza in un piccolo angolo che è l’unico punto dove la telecamera non può riprendermi. Non posso fare rumore, non devono accorgersi che sono in camera e mi sto nascondendo. Dovrei essere al momento ricreativo, lo so, ma voglio stare qua col mio quaderno. Speriamo nessuno si accorga che manco. Cosa succederebbe se mi scoprissero? Mi verrebbero a prendere, mi porterebbero al palazzo di giustizia e mi torturerebbero, finché non confesserò di essere un sovversivo, perché mi nascondevo dalle telecamere, perché scrivevo un quaderno nascondendomi dalle telecamere. Ma no, non devo pensarci, non mi scopriranno, basta fare attenzione. Basta solo fare attenzione a restare qua immobile, nell’unico angolo dove il Grande Fratello non può vedermi.
Chiudo il libro, mi fanno male gli occhi. Lo sistemo al suo posto, spengo la luce, punto la sveglia per la lezione di domattina e mi addormento pensando:
“Certo che questo Orwell aveva proprio una bella fantasia!”